Sergio Dolce
Stagni carsici naturali e artificiali
Per capire l’importanza degli stagni artificiali, del loro ruolo ecologico e soprattutto per esaminare le diverse tecniche di costruzione con i loro pregi e difetti, risulta particolarmente significativo fare un quadro della situazione locale nell’ambito del Carso triestino. Considerata la natura carsica di questo territorio che, a causa della scomparsa nel sottosuolo delle acque meteoriche attraverso le fratture e le fessurazioni delle rocce carbonatiche, viene a trovarsi privo di una rete idrologica superficiale, possiamo affermare, anche se sembra strano che gli unici ambienti d’acqua dolce perfettamente naturali sul Carso sono le vaschette di corrosione che si formano in seguito a carsismo epigeo nei solcati carsici. Un caso a parte è rappresentato dallo stagno situato al fondo della dolina di Percedol che, pur presentando opere di rimaneggiamento e di arginatura realizzate dell’uomo, presenta un fondo argilloso dovuto a sedimentazione naturale.
Non è semplice formulare una classificazione delle raccolte d’acqua del Carso triestino. Valutando alcuni parametri, quali la natura del fondale, la presenza di copertura vegetale, e la struttura dei popolamenti a crostacei, è stata proposta la seguente classificazione: pozze di piccolissime dimensioni nel calcare; vaschette di corrosione in bancate calcaree, talvolta anche con acqua tutto l’anno; abbeveratoi in cemento; stagni astatici; stagni perenni con forti variazioni di volume; stagni molto grandi. Tra questi i soli ambienti naturali sono le pozze e le vaschette di corrosione nel calcare; gli altri sono tutti artificiali, ottenuti con metodi diversi a seconda delle varie epoche.
La scarsità d’acqua, proverbiale in questo territorio e dovuta alla natura stessa del terreno, ha indotto quindi i contadini a procurarsi, nel passato, delle piccole riserve d’ acqua per uso prevalentemente agricolo. Sul Carso permangono ancora queste testimonianze e le raccolte d’acqua sono conosciute con i nomi locali di kal, luza, mocile, lokva, poc, studenec. Il metodo in uso nel passato era quello di scavare una conca, o di sfruttare una depressione preesistente, e di renderne il fondo impermeabile mediante il deposito di un abbondante strato di argilla. Questo strato veniva poi costipato e pressato deponendovi sopra uno strato di pietre. Per facilitare l’accesso del bestiame all’abbeverata veniva di solito realizzato un piano inclinato con pavimentazione in pietra. Gli stagni erano soggetti a periodica manutenzione per impedire l’eccessivo sviluppo della vegetazione e l’accumulo di fango e detriti. Tutta la gente del villaggio partecipava a questo lavoro, che veniva effettuato nel periodo più secco dell’anno; le piante acquatiche in eccesso venivano tolte con l’ausilio di rami, fascine o rastrelli. Per rimuovere i detriti di fondo, se necessario, lo stagno veniva prosciugato: i depositi asportati venivano usati come fertilizzanti per i campi, mentre le eventuali falle del fondo venivano riparate con ulteriore argilla. Questa veniva poi pressata con un particolare attrezzo costituito da due pali collegati da una tavola e mosso ritmicamente da due persone. Un particolare sistema per la costipazione del fondo era l’utilizzo di un gregge di pecore: gli animali, rinchiusi con un recinto nella conca per alcuni giorni, muovendosi ed urtandosi, ottenevano la costipazione dell’argilla.
Colonizzazione degli stagni
Gli stagni ottenuti con l’impermeabilizzazione in argilla davano origine ad un ambiente nel quale non tardavano a stabilirsi varie specie di piante legate all’acqua. Le varie piante igrofile o idrofile tendono a disporsi in zonazioni concentriche seguendo successive fasce batimetriche:
zona retroripariale dei giuncheti. Il giuncheto è formato da Juncus inflexus e da Juncus articulatus; nel caso di mancata manutenzione possono prendere il sopravvento specie nitrofile come Bidens tripartita, Rumex conglomeratus e Polygonum minus, che con la loro crescita rapida favoriscono l’interramento dello stagno;
zona ripariale delle specie anfibie. Questa zona è colonizzata soprattutto da alofite anfibie come ad esempio Typha latifolia, Eleocharis palustris e Alisma plantago-aquatica;
zona centrale. È caratterizzata dalla presenza di specie a foglie natanti come Nymphaea alba e Potamogeton natans.
Prevalentemente a sviluppo sommerso sono invece Potamogeton crispus, Ceratophyllum demersum e Myriophyllum spicatum.
Completamente galleggianti sono invece le specie del genere Lemna, infestanti e capaci di coprire lo specchio d’acqua causando una forte diminuzione della penetrazione della luce nella massa d’acqua.
La colonizzazione di questi ambienti viene completata con varie componenti faunistiche rappresentate soprattutto da insetti acquatici e da molluschi. I vertebrati vengono normalmente rappresentati da anfibi come i tritoni (Triturus vulgaris e Triturus carnifex), i rospi (Bufo bufo ed eventualmente Bufo viridis), la raganella (Hyla arborea), l’ululone dal ventre giallo (Bombina variegata) e varie specie di rane (Rana dalmatina, Rana esculenta, Rana lessonae e Rana ridibunda). Tra i rettili idrofili risulta abbastanza comune la biscia dal collare (Natrix natrix).
Un grave problema che compromette l’equilibrio ecologico degli stagni è dato dalla presenza di specie alloctone, la cui presenza è dovuta ad introduzioni effettuate dall’uomo. Il discorso riguarda soprattutto varie specie di pesci (Carassius auratus, Cyprinus carpio, Tinca tinca, Alburnus alburnus alborella, Lepomis gibbosus e Gambusia holdbrooki), di rettili acquatici come la tartaruga palustre americana (Trachemys scripta ssp.) e le anatre domestiche (Anas sp.). L’introduzione di queste specie può rappresentare un vero e proprio inquinamento biologico che causa gravi danni all’ecosistema naturale, portando spesso all’estinzione di molte specie autoctone e caratteristiche dello stagno.
Va infine considerato che la colonizzazione degli stagni, in particolare per le piante, può avvenire solo se il fondo risulta naturale o costruito con metodi naturali come ad esempio l’impermeabilizzazione con l’argilla. Le vasche e gli abbeveratoi artificiali, come quelli costruiti in cemento dai cacciatori, consentono solo una colonizzazione parziale in quanto, ad esempio, mancheranno completamente tutte le piante acquatiche che hanno bisogno di ancorarsi al terreno con le radici.
Stagni sperimentali in provincia di Trieste
Nel corso di questi ultimi anni è stata sperimentata, in provincia di Trieste, la costruzione di alcuni stagni artificiali con metodi anche di nuova concezione. Alcune scuole provviste di spazi liberi all’aperto hanno realizzato a scopo didattico dei piccoli stagni usando per il fondo teli impermeabili di plastica. Il metodo si è rivelato abbastanza efficiente, anche se il telo di nylon non permette l’inserimento delle radici. L’inconveniente può essere ovviato coprendo il telo stesso con uno spessore di terriccio argilloso che, oltretutto, serve anche da protezione per evitare danni e falle al telo stesso. Inoltre, sempre nell’ottica di una realizzazione prevalentemente didattica, molte piante anfibie possono essere messe nell’acqua con il proprio vaso.
Un altro esperimento, che “avrebbe” dovuto rappresentare il non plus ultra in questo campo, è stata la realizzazione di alcuni stagni con il bentomat. Si tratta di una guaina composta da tre strati, di cui due sono sintetici e spugnosi, mentre quello centrale è composto da bentonite (argilla anidra): nel momento in cui si immette l’acqua, la bentonite si idrata e garantisce l’impermeabilità della guaina. Con questo metodo innovativo, particolarmente semplice e quindi molto adatto anche alla realizzazione di laghetti artificiali in orti, parchi e giardini sono stati recentemente realizzati gli stagni del Centro Didattico Naturalistico di Basovizza, quello del Parco Comunale di Villa Giulia e quello di Barcola-Bovedo. La particolare conformazione della guaina permette pure l’inserimento di radici delle eventuali piante acquatiche. A distanza di pochi anni (il primo stagno in bentomat è quello di Basovizza, realizzato nel 1994) purtroppo il bentomat ha rivelato alcuni difetti che lo rendono “non usabile”. Qualora il bacino subisca delle oscillazioni di livello, caso molto frequente per ambienti di questo tipo, la guaina che rimane all’asciutto si secca e non si reidrata più: il risultato è che nel giro di pochissimo tempo lo stagno perde la sua impermeabilità e si asciuga. Ciò, aggiunto all’elevato costo del materiale, ne sconsiglia decisamente l’uso. Il bentomat quindi potrebbe essere usato esclusivamente per bacini molto grandi e con un livello costante dell’acqua.
In conclusione possiamo quindi affermare che i sistemi vecchi e tradizionali sono ancora oggi quelli che danno le migliori garanzie e che, con una adeguata manutenzione, assicurano una lunga durata di ambienti di questo tipo.