Laura Marzi
Il nome “Giardino dei Semplici” deriva dalla denominazione medioevale che veniva data agli orti botanici, ovvero Hortus simplicium o Hortus medicus.
Il primo orto botanico dell’Europa occidentale è nato a Pisa nel 1543, seguito quasi immediatamente dopo da quelli di Padova e Firenze, poi, presso le scuole di medicina, seguirono gli orti di Bologna, Leiden, Montpellier, Oxford, Edinburgh.
Gli “orti dei semplici” erano per lo più situati presso i monasteri, cioè nei centri culturali più importanti del periodo Medioevale. Essi erano delle raccolte di erbe medicinali per la preparazione dei “semplici” della farmacopea in uso, ma furono costituiti con scopi scientifici e didattici. In seguito, in questi orti furono coltivate anche piante non medicinali, proprio a scopo didattico, cosicchè la botanica divenne una scienza autonoma, distaccata dalla medicina.
Le piante sono un serbatoio ricchissimo di sostanze farmacologicamente attive, e tutte le forme terapeutiche che si basano sul loro impiego sono auspicabili. Per attuare una buona fitoterapia è necessario individuare la pianta o le piante più idonee a combattere lo stato patologico che ha colpito il paziente. Tuttavia è possibile che non si raggiunga l’effetto desiderato se non si procede alla somministrazione del fitopreparato in modo tale da permettere che i suoi principi attivi raggiungano i recettori e vi permangano a concentrazioni sufficienti per tutto il periodo necessario al raggiungimento dell’effetto desiderato.
Il conseguimento di questo risultato è possibile soltanto se si conoscono quei fattori che diventano delle regole generali della farmacologia allopatica. Questa si basa sull’aforisma di Ippocrate secondo il quale contraria contrariis curantur, in contrapposizione con quello omeopatico di Hahnemann che afferma similia similibus curantur. A fianco delle conquiste più recenti della chimica, della batteriologia, della radioterapia, la scienza moderna ha dimostrato il suo eclettismo pescando nella tradizione, nelle scoperte dei vecchi “semplicisti”, meditandovi accuratamente, e ridando onore alla loro spesso sminuita terapeutica. È così che il vocabolo “fitoterapia”, dal greco fitos (pianta) e terapia (cura), è diventato vocabolo scientifico.
Per molti, ancora, la fitoterapia rappresenta qualche cosa alla quale è molto difficile dare credito in quanto si tratterebbe di somministrare acqua calda alterata con erbe più o meno comuni. Ovviamente la fitoterapia non consiste solamente nella somministrazione delle tisane, o perlomeno non solo.
Uno dei concetti di riferimento, parlando di regole fondamentali, è la biodisponibilità, cioè la quantità giusta di principio attivo che serve a raggiungere il recettore. A questo proposito cerchiamo di capire quale può essere il destino di un principio attivo. Innanzitutto esso viene assorbito attraverso lo stomaco e l’intestino, previo passaggio attraverso il fegato, prima di essere immesso nella corrente sanguigna. Qui segue le normali vie di tutti i metaboliti, cioè si distribuisce in tutti i tessuti, viene frequentemente trasformato, soprattutto a livello epatico, ed infine viene eliminato attraverso organi che hanno questa precipua funzione, cioè reni, intestino, polmoni e pelle.
Tutto questo può avvenire senza conseguenze di alcun tipo per l’organismo, specialmente nel caso in cui il principio attivo non riesca a raggiungere la sua specifica sede di azione, oppure vi arrivi in quantità talmente ridotta da non essere in grado di stimolare nessuna reazione farmacologica.
Molti sono i fattori sia interni che esterni che influenzano la diffusione di un principio attivo nell’organismo, e conseguentemente la sua attività farmacologica.
Tra di essi i più importanti sono: dose, frequenza, forma fitoterapica.
Per dose terapeutica si intende la quantità di principio attivo da somministrare per ottenere un risultato desiderato. Normalmente essa viene riferita ad un giovane adulto di media corporatura (60-70 kg). Molto spesso, però, si è rilevato che con l’aumento della dose di principio attivo, aumentava anche percentualmente il numero di persone che rispondevano alla terapia.
Spesso quindi, alla base di un insuccesso fitoterapico, c’è un dosaggio inadeguato. Prima di cambiare terapia, a volte, sarebbe utile provare ad aumentare i dosaggi. Chiaramente questo vale per rimedi fitoterapici ad elevato indice terapeutico, e quindi con tossicità bassissima o nulla.
In ogni caso le dosi vanno studiate in base all’individuo al quale devono venire somministrate; così, per esempio, le dosi per i bambini fino ai 6 anni devono essere la metà circa di quelle degli adulti, e per gli anziani e per persone con ridotta funzionalità epatica, la dose media deve essere leggermente ribassata.
Quando poi è necessario prolungare nel tempo l’azione farmacologica, bisogna ricorrere ad una somministrazione ripetuta, ad intervalli regolari, al fine di mantenere un costante tasso ematico del principio attivo.
La frequenza deve essere considerata e variata a seconda del tipo di terapia da praticare. Così nel caso di una terapia diuretica, per esempio, la frequenza potrà anche essere discontinua, una volta al giorno, una volta ogni due o tre giorni, ecc. Se si vuole, invece, ottenere un effetto ansiolitico, sarà necessario applicare una frequenza continuata, tipo 3-4 volte al giorno; per un effetto ipnotico, la frequenza sarà solo serale, mezz’ora circa prima di coricarsi.
Forma fitoterapica: la preparazione più classica dell’erboristeria è l’estrazione acquosa, cioè il decotto e l’infuso; questi derivano in genere da una miscela di piante secche chiamate tisane. Ci sono alcune regole di base per la buona formulazione di una tisana: 1) innanzitutto non si devono miscelare molte piante assieme, perché l’estratto che ne deriva potrebbe risultare poco accettabile per lo stomaco; 2) maggiore sarà il numero di piante usate per una tisana e maggiore sarà di conseguenza la quantità di sali minerali disciolti nella soluzione acquosa, saturandola e non permettendo ai principi attivi veri di andare in soluzione. Spesso, per questo motivo, nella farmacopea, parlando di estratti acquosi, si trova il consiglio di utilizzare acqua distillata o almeno demineralizzata; 3) più piante vengono usate, e più aumenta il rischio di avere reazioni di incompatibilità tra i componenti e di annullare sinergie positive o negative. Una tisana ben formulata dovrebbe contenere:
- a) il rimedio di base, costituito da 2-3 piante, scelte in funzione dell’azione farmacologica principale che si vuole ottenere;
- b) il rimedio sinergico, costituito da 1-2 piante che rinforzano l’azione del rimedio principale;
- c) il correttore del sapore, utile per rendere più gradevole ed accettabile la tisana.
Per fare un esempio prendiamo la formulazione di una tisana lassativa:
Frangula corteccia- 45% = rimedio di base
Rabarbaro cinese rizoma- 20% = rimedio di base
Malva foglie- 20% = rimedio sinergico
Anice semi- 15 % = correttore del sapore
Parecchi di voi si saranno chiesti se gli infusi e i decotti hanno ancora una loro validità. La risposta è senz’altro sì, soprattutto per quelle tisane che si propongono l’eliminazione dei rifiuti metabolici, o che servono a correggere alcuni dismetabolismi quali l’ipercolesterolemia, l’ipertrigliceridemia, l’iperazotemia, l’iperglicemia; oppure quando si intende aumentare la diuresi, ed ancora in tutti i casi in cui le piante che intendiamo usare contengono mucillagini, saponine, antrachinoni, ovvero principi attivi facilmente solubili in acqua. Nel mondo medico al di fuori dell’Italia, d’altra parte, queste preparazioni godono di grande credito, tanto che, in Austria esiste una farmacopea ufficiale che contiene diverse formulazioni di decotti ed infusi, ed una recente indagine ha dimostrato che presso i maggiori ospedali francesi si fa largo uso di preparazioni estemporanee (decotti ed infusi).
Le polveri si ottengono dalle droghe essiccate mediante operazioni meccaniche dette polverizzazioni. Il grosso pregio delle polveri è quello di contenere tutti i principi attivi della pianta, ma anche molte fibre, non sempre gradite.
I succhi sono soluzioni acquose di fitocomplessi di piante medicinali ottenuti per spremitura delle stesse. In essi possono trovarsi olii essenziali, vitamine, acidi organici ecc. tanto che molto probabilmente il succo rappresenta maggiormente il fitocomplesso della pianta. Una problematica dei succhi è rappresentata dal loro ottenimento e dalla loro conservazione che richiedono una grande tecnologia. Un’altra è data dal fatto che, una volta aperto il flacone, il succo si conserva solo per pochi giorni, in media una settimana.
Gli estratti idroalcolici sono soluzioni ottenute per estrazione, mediante miscele di acqua e alcool etilico, da piante medicinali. Essi sono di 3 tipi: la tintura, l’estratto fluido e la tintura madre. La differenza tra tintura e tintura madre consiste nell’uso di piante secche nel primo caso e di piante fresche nel secondo. Il maggior difetto della tintura sta, appunto, nel fatto che viene usata esclusivamente droga secca, anche per quelle piante che perdono molto con l’essiccazione. Per gli estratti fluidi (o estratti idroalcolici 1:1) il problema sorge per la loro stabilizzazione, essendo dei preparati instabili. In seguito a vari procedimenti si ottiene un preparato stabile, ma “zoppo” di alcuni costituenti propri della quantità di droga usata in partenza, in pregiudizio della sua attività terapeutica. La tintura madre, frutto di regole codificate dalla tradizione e di nuove conoscenze scientifiche, invece risulta essere un preparato di sicura efficacia e di rapida assunzione.
Gli estratti molli si preparano facendo evaporare il solvente dalla soluzione dell’estratto fluido, fino ad ottenere un preparato di consistenza simile ad una marmellata.
Gli estratti secchi si preparano per evaporazione completa del solvente di estrazione, generalmente a pressione ridotta, fino ad ottenere un prodotto riducibile in polvere. Essi hanno un’altissima percentuale di principi attivi in un volume ridotto.
Tuttavia la preparazione di ambedue i i tipi di estratti implica notevoli problemi per riuscire ad ottenere un prodotto che abbia conservato la maggior parte dei principi attivi di partenza. Gli estratti molli e quelli secchi si trovano molto spesso contenuti in perle, in opercoli oppure, nel caso degli estratti secchi, compressati, in modo da renderli più facilmente assumibili. Di seguito si riportano, a scopo indicativo, alcuni esempi di piante officinali.
Diuretici
Sicuramente i migliori successi in campo fitoterapico, fin dai tempi degli “orti dei semplici”, si sono avuti tra i rimedi diuretici. Infatti la flora è ricchissima di rimedi di questo tipo, tanto che, se non vi viene in mente quali possano essere le virtù officinali di una pianta, potete sempre dire che essa è diuretica, avendo il 95% di probabilità di non esservi allontanati molto dalla realtà. Tutte le piante in effetti contengono del nitro, uno degli uropoietici più potenti; ad esso si aggiungono quasi sempre delle resine e degli oli essenziali, la cui eliminazione avviene a carico del rene, stimolandone i tessuti.
Il più classico dei diuretici è la gramigna (Triticum repens o Agropyron repens – le due specie, tutte e due appartenenti alla famiglia delle graminacee, stanno ad indicare lo stesso medicamento).
L’uso del rizoma della gramigna è consolidato da una tradizione secolare; il suo decotto, già raccomandato da Dioscoride e da Plinio, è considerato nel XVIII secolo come uno dei più potenti solventi della litiasi biliare. Senza voler attribuire alla gramigna virtù terapeutiche forse un po’ sopravvalutate, non si può negare che il suo succo zuccherino e mucillaginoso, dovuto alla presenza di mucopolisaccaridi, sciolto in acqua, trova applicazione negli stati infiammatori dell’apparato urinario e del tubo digerente. La forma più usata è data dalla decozione della radice, spesso filtrando e gettando la prima acqua di cottura intrisa di principi attivi amari ed acri.
Si pesta, poi il residuo dei rizomi, e si fanno bollire per 15 minuti circa. Si può aggiungere, a fine bollitura, come correttivo, un cucchiaio di radici di liquirizia.
Questo rappresenta generalmente il preparato elettivo per sedare coliche renali e cistiti.
Un altro diuretico usatissimo, nonché consigliatissimo da tutte le riviste femminili che propongono rimedi miracolosi contro cellulite e problemi di sovrappeso, è rappresentato dai peduncoli di ciliegia
Tutte le parti del frutto della ciliegia hanno giocato un qualche ruolo in medicina.
Nell’antichità si considerava l’olio estratto dai suoi noccioli come un meraviglioso rimedio per scacciare i calcoli dal rene e dalla vescica, ma sono stati proprio i peduncoli ad essere maggiormente utilizzati, in quanto il loro decotto aumentava prontamente la secrezione urinaria là dove altri diuretici erano stati usati senza successo. Ovviamente questo decotto viene tuttora utilizzato per favorire la diuresi e per ovviare all’infiammazione delle vie urinarie. Ricetta di una tisana tanto gradevole quanto rinfrescante: si fa bollire in un litro di acqua 30 gr, circa una buona manciata, di peduncoli di ciliegia; il decotto va gettato bollente su 250 gr di ciliegie o di mele tagliate a fettine, a seconda della stagione. Dopo 20 minuti si passa, premendo leggermente su di un colino. Si ottiene così una bevanda che piacerà molto sia alle persone sane che a quelle che hanno bisogno di una leggera depurazione.
Un’altra pianta usata come diuretico è l’asparago (Asparagus officinalis).
A torto sono stati attribuiti all’asparagina gli effetti uropoietici dell’asparago: sembra infatti che questi siano dovuti piuttosto ad un principio attivo volatile che agirebbe aumentando non la quantità di urina, ma la frequenza delle minzioni, in conseguenza di un’azione irritante sull’epitelio renale. Questo, peraltro, giustificherebbe l’accusa che veniva rivolta a questa pianta di provocare litiasi renale (formazione di calcoli).
Ci sono comunque in letteratura pareri contrastanti in merito, ed in ogni caso si sconsiglia l’uso della radice di asparago in caso di forti infiammazioni renali. In tutti gli altri casi sia il decotto che l’infuso della radice di asparago può essere utile come semplice diuretico.
Per quel che riguarda le parti aeree della pianta, compresi i giovani getti, è legittimo pensare che esse pure possano esercitare un leggero effetto diuretico. Non si può non enumerare tra i diuretici più conosciuti la betulla (Betula alba).
Chiamata un tempo “albero della saggezza”, con allusione agli argomenti convincenti che i suoi rami fornivano ai pedagoghi per inculcare ai loro allievi le sane dottrine.
Già alla fine del 1800, famosi medici riconobbero che l’infuso delle sue foglie poteva far sparire gli edemi di origine cardio-renale, così come le diverse manifestazioni dell’idropisia. Ancora oggi essa rappresenta uno dei migliori diuretici, soprattutto presso i gottosi. La droga è costituita dalle foglie caulinari fresche o disseccate, ma in realtà se ne usano più parti: le foglie, come già detto, hanno proprietà diuretiche-eliminatrici dei cloruri, dell’urea e degli acidi urici, funzionano da depurativi-sudoriferi; le gemme vengono utilizzate in estratto, e combattono l’ingorgo dei gangli linfatici; la linfa, che si raccoglie in primavera segando un ramo di media grandezza da un albero (il che può fornire da 4 a 5 litri di linfa al giorno), è un’eccellente bevanda rinfrescante e depurativa. La dose giornaliera consigliabile è di 1-2 cucchiai su 200 ml di acqua bollente, in infusione 10-15 min., ripetuta per 2-3 volte. Un altro famosissimo diuretico è il frassino (Fraxinus excelsior), il cui utilizzo dal punto di vista terapeutico risale all’epoca romana, quando venivano usati i suoi semi in caso di idropisia. In seguito, le sue virtù terapeutiche furono citate anche in opere medioevali, tanto che in quell’epoca si sostenne che il suo nome derivasse dalla sua azione litontritica (lapidem frangens). Ai nostri giorni il frassino è ancora un rimedio popolare dei reumatismi e della gotta.
La droga è costituta dalle foglie fresche o essiccate e dalle loro preparazioni fitoterapiche.
Posso dire che una tazza di infuso di foglie di frassino fatta con 2-3 cucchiai di droga per 500 ml di acqua, ogni mattina, è stata vivamente raccomandata da un uomo che ha raggiunto i 107 anni.
Tutti noi abbiamo certamente visto, e molti di noi anche usato, uno dei più popolari diuretici: l’equiseto (Equisetum arvense). Si tratta di una pianta erbacea senza foglie (per lo meno nella forma più evidente), né fiori, che cresce nei campi umidi, silicei e argillosi, in tutta l’Europa, l’Asia, l’America settentrionale. E’ comunissima ovunque, e forse questo è il motivo per cui è stata spesso sottovalutata. Questa pianta è sicuramente tra quelle della flora indigena, la più ricca in silicio (le sue ceneri ne forniscono quasi il 70%), e merita un posto a parte nell’arsenale del fitoterapeuta, per la sua triplice azione diuretica, emostatica e rimineralizzante.
Esso è risultato utile nella cura dell’edema post-traumatico e statico, nella diuresi forzata in caso di affezioni batteriche ed infiammatorie delle vie urinarie, e contro la renella.
Come rimineralizzante è molto pregiata, in quanto tra i principali costituenti non c’è solo il silicio, ma anche carbonato di calcio, potassio, magnesio, ferro e manganese.
Risulta quindi utile in tutti i casi di demineralizzazione quali l’osteoporosi, la fragilità ossea, il rachitismo, l’artrosi, ecc.
Per uso topico il decotto viene utilizzato per lavaggi o compressaggi in casi di ulcere alle gambe, piaghe, afte, ecc.
Inoltre le proprietà emostatiche della coda cavallina sono utilizzate da molto tempo, in quanto nella pianta si ritrovano ben due principi attivi con proprietà coagulanti.
Per finire la serie delle piante con proprietà diuretiche, accenneremo ora ad un arbusto molto comune, spesso molto sviluppato, tanto da sembrare un piccolo albero, che decora molte siepi, radure, ruderi e margini di corsi d’acqua. Si tratta del famoso sambuco (Sambucus nigra), che la medicina popolare ha sfruttato in ogni sua singola parte, anche se nella odierna fitoterapia se ne usano le infiorescenze e meno spesso, le bacche.
I fiori essiccati e sgranati vengono usati per infusi diaforetici e come emollienti a livello pettorale; sono soprattutto dei buoni diuretici, immunostimolanti, e si presume, galattogeni.
Nella medicina tradizionale era ed è considerato come una panacea; nella fitoterapia popolare tirolese era chiamato “farmacia degli dei”, il contadino che lo raccoglieva si inginocchiava davanti all’arbusto 7 volte, poiché 7 sono i doni che da esso ne ricavava, germogli, fiori, foglie, bacche, midollo, corteccia, e radici. Dai germogli si otteneva un decotto che calmava le nevralgie; gli impacchi delle foglie calmavano affezioni cutanee di vario genere; con i fiori si faceva, come oggi, un infuso depurativo e dalle bacche si otteneva uno sciroppo contro le infiammazioni dei bronchi e dei polmoni. La corteccia, poi, veniva usata come emetica o lassativa a seconda della quantità usata; fresca curava il glaucoma, posta come impacco sugli occhi. La radice, pestata e bollita era un ottimo decotto ed impacco contro la gotta e le malattie del ricambio. Infine, dal midollo si ricavava una pappa usata con farina e miele per lenire il dolore delle lussazioni.
Oggigiorno il sambuco viene utilizzato soprattutto per i suoi fiori, in infusi diuretici, diaforetici, ed utili anche nelle affezioni respiratorie.
Il numero di piante da raggruppare tra i cosiddetti diuretici sono ancora tantissime, e fra esse si possono ricordare: l’erica, l’uva ursina, la spirea ulmaria, la verga d’oro, la pilosella, la cipolla.
Sedativi
Passiamo ora alla trattazione di un altro gruppo di piante, che generalmente suscitano un certo interesse: le piante sedative.
I sedativi o tranquillanti, sono forniti in discreto numero dal regno vegetale ed hanno trovato impiego fin da tempo immemorabile, essendo da sempre sentita l’esigenza di calmare lo stato di agitazione e di favorire comunque il sonno. L’intensità e la durata del loro effetto può variare molto, ma non eguaglia mai quello dei farmaci di sintesi tipo barbiturici e benzodiazepine.
La posizione dei sedativi vegetali è però peculiare, proprio perché essi offrono una risposta farmacologica delicata, sicura, senza nessun inconveniente.
La parola delicata non significa inefficace, perché queste piante hanno azioni medicinali vere e proprie, che possono essere difficili da dimostrare negli esperimenti di laboratorio, ma che sono evidentissime nell’esperienza erboristica, cioè empirica.
L’empirismo, anche se fa sorridere gli scettici, è uno dei pilastri su cui si basa tutta l’esperienza concernente l’azione delle piante medicinali; non dimentichiamo che moltissimi dei moderni farmaci di sintesi sono stati sviluppati sulla base dell’empirismo, e che la prova sperimentale della loro validità è venuta in seguito.
I fitopreparati ad azione sedativa aiutano ad affrontare gli stress della giornata, smorzando gli stimoli emozionali che continuamente ci provengono dall’ambiente che ci circonda, favorendo così il rilassamento ed il riposo notturno.
E’ però necessario saper usare le piante giuste ed i loro giusti fitopreparati, assicurandosi che la dose non sia troppo piccola e la frequenza troppo distanziata nel tempo.
La prima pianta erbacea ad effetto sedativo che a chiunque viene in mente è la valeriana (Valeriana officinalis). Molto comune nelle zone temperate d’Europa e dell’Asia, cresce in luoghi umidi, nelle rive dei corsi d’acqua e nei boschi, dalla pianura fino alle regioni montane.
Il nome “Valeriana” deriva dal latino valere cioè star bene, essere sano, allusione a proprietà medicinali della pianta. La parte impiegata è il rizoma con le radici raccolte in primavera. Il rizoma e le radici fresche sono praticamente inodori, mentre il tipico odore della valeriana si sviluppa in essiccazione, man mano che si libera l’acido isovalerianico.
La valeriana è nota come droga per il trattamento di vari disturbi nervosi e, al di là di ogni dubbio, è un sedativo ottimo, forse il migliore, ma spesso viene prescritta in dosaggio troppo basso. Per esempio prescrizioni di 20 gocce di T.M.(tintura madre) di valeriana giornaliere, non sono sicuramente sufficienti. E’ quantomeno improbabile che a questo dosaggio si possa avere un effetto anche leggermente sedativo. Per quanto riguarda la T.M., il consiglio è di assumerne almeno 80-100 gocce alla volta, ripetendo l’assunzione di questa dose singola anche 2-3 volte intervallate da mezz’ora.
Per quanto riguarda l’uso del decotto, se ne consiglia l’assunzione di 2-3 tazze al giorno, mescolando la radice di valeriana con qualche altra pianta a sapore più gradevole, come il tiglio, tanto per rendere meno nauseabonda la mistura. E’ conosciuto il fatto che i gatti siano attratti dalla valeriana e che questa possa mandarli in estasi, ma non si sa ancora quale sia la sostanza responsabile di questa reazione. Si è supposto che sia un iridoide, l’actinidina, poiché una sostanza molto simile è presente anche nella cosiddetta erba gatta (Nepeta cataria), ma in realtà non c’è nulla di sicuro.
Un’altra pianta ad effetto sedativo è la melissa (Melissa officinalis), molto comune anch’essa, tipica delle zone temperate, dal piano fino alle zone montane inferiori. Di essa si utilizzano le foglie e le sommità fiorite.
Della melissa ci sarebbe da dire tanto, essendo anch’essa tra quelle piante conosciute ed usate fin dall’antichità. Nel periodo Medioevale essa veniva utilizzata per risollevare il cuore e combattere le palpitazioni notturne, contro le cefalee, il ronzio agli orecchi, le vertigini conseguenti a lavori intellettuali. Ovviamente tutti conoscono al famosa “Acqua di Melissa” dei Carmelitani Scalzi, creata nel 1611 appunto dai Carmelitani francesi, e rimasto a tutt’oggi il più popolare antispastico. Si tratta di un alcolaturo, cioè di un macerato alcolico delle foglie della melissa, utilizzato da tutte le classi sociali nei momenti drammatici dell’esistenza, dalle indigestioni, alle crisi di nervi, alle scene matrimoniali.
Non dimentichiamo che molto spesso la melissa viene utilizzata per il suo squisito profumo nelle miscele per bagni e nei profumi, quali ad esempio l’Acqua di Colonia.
In fitoterapia moderna viene usata per nevrosi cardiache, nevrosi allo stomaco, difficoltà nell’addormentarsi. Anche per la melissa vale la regola di non fare le dosi troppo piccole quando si prepara l’infuso, primo perché ha un basso peso specifico, secondo perché la melissa quando viene essiccata perde una parte dell’olio essenziale che è il suo principio attivo principale.
Attenzione quando si acquista l’olio essenziale di melissa: sull’etichetta deve essere riportato “Melissa 100%”, poiché molto spesso durante la distillazione viene sostituita dalla citronella (Cymbopogon nardus), una graminacea asiatica che sembra avere le stesse proprietà ed aroma della melissa, ma risulta essere molto più economica.
Altra pianta molto comune tra le sedative è la passiflora (Passiflora incarnata), pianta rampicante originaria del Sud America e delle Indie Orientali, nei nostri giardini è usata una varietà rampicante ornamentale Passiflora coerulea.
La droga è costituita dalle parti aeree fresche o disseccate, come pure dalle loro preparazioni a dose attiva.
E’ risultata utile negli stati di agitazione nervosa, nelle insonnie, nella nevrastenia, nei disturbi della menopausa, sfruttando le sue proprietà antispasmodiche e sedative, senza peraltro provocare un secondario effetto depressivo.
Molto usata in tisane miste, risulta comunque più efficace come T.M., della quale se ne prescrivono dalle 30 alle 50 gocce 1-3 volte al giorno (ovviamente compreso il momento prima di coricarsi).
Il biancospino (Crataegus oxyacantha e Crataegus monogyna), è un arbusto spinoso spontaneo o coltivato come siepe, presente in Europa, Asia Minore, America Settentrionale e Canada, dal piano alle zone montane.
L’uso del biancospino come antispastico è recente: gli antichi lo hanno indicato solo per raccomandare i suoi fiori contro la gotta, la pleurite, la leucorrea e le sue bacche come specifico dei calcoli urinari. In fitoterapia moderna vengono utilizzati i suoi fiori e le foglie miste ai fiori, come tonico cardiaco, bradicardizzante, ipotensore con leggero effetto vasodilatatore, antispasmodico, leggero ipnotico.
La sua proprietà principale, tuttavia, è di tonificare il cuore e di esercitare sui vasi un’azione regolatrice per l’equilibrio che stabilisce tra la pressione sanguigna e la forza dell’impulso cardiaco. La sua azione sedativa deriva da un’insieme di proprietà fisiologiche: mentre regolarizza i movimenti del cuore ed assicura una buona ripartizione del sangue, diminuisce l’eccitabilità del sistema nervoso e per questo è risultato adatto nelle sindromi da menopausa con palpitazioni, vampate di calore, insonnia, irritabilità. L’unica controindicazione riportabile è nell’uso del biancospino nell’infanzia.
Anche l’iperico (Hypericum perforatum) o Erba di S.Giovanni, è una pianta molto conosciuta ed usata fin da tempi remoti. Gli antichi le attribuivano mille virtù: i medici occultisti la chiamavano fuga demonum, convinti del potere che esercitava sugli spiriti del male grazie al suo profumo, simile all’incenso, che era il profumo di Dio. Siccome le sue foglie sono crivellate di buchi, ed i suoi fiori trasudano un”succo sanguinolento”, i seguaci della “medicina dei segni” ne facevano uno specifico di tutte le lesioni che provocano perdita di sangue. Alcuni chirurghi lo utilizzavano come vulnerario senza pari. In realtà, l’essenza e la resina contenute nei fiori di iperico fanno di questa pianta un antisettico molto utile nel trattamento delle piaghe, delle ulcere e delle bruciature. Lo si utilizza spesso sotto forma di olio preparato per macerazione dei fiori in olio di oliva o in olio di mandorle, che risulta molto meno sgradevole nell’odore, e vino bianco. Dopo alcuni giorni di macerazione si fa bollire a bagnomaria, fino alla totale evaporazione della parte alcolica.
Da questa ricettina popolare si evince che la parte usata come droga è data dalla sommità fiorita dell’iperico, sia fresca che essiccata. Il nome volgare Erba di S. Giovanni, deriva dal fatto che l’iperico è annoverato tra le piante solstiziali, cioè tra quelle che maggiormente incarnano la forza radiante del sole. Secondo vari calendari il momento di massima intensità luminosa corrisponde ai giorni tra il 19 e il 24 giugno, quando il sole è giunto al massimo grado di elevatezza sull’orizzonte. Il 24 giugno è appunto liturgicamente celebrata la nascita di S. Giovanni Battista. L’oleolito di iperico ha un’azione vulneraria e sedativa per uso topico, nel trattamento di scottature, ulcere, piaghe e ferite sia recenti che non, ma si può parlare dell’iperico anche per la sua azione antidepressiva e neurotonica che libera i suoi maggiori effetti in caso di insonnie nervose e di esaurimento psico-emotivo, specialmente dove vi siano somatizzazioni a carico dell’apparato digerente, respiratorio, genito-urinario e del sistema circolatorio. Più che un effetto tranquillante, risulta che l’iperico sia utile come regolatore del tono dell’umore.
Recentemente viene largamente usato e prescritto anche da alcuni medici come antidepressivo, anche se questo effetto compare lentamente, e solo dopo due o tre settimane si hanno i primi risultati. In questi casi quindi, il trattamento deve durare almeno due o tre mesi. Unica avvertenza per chi utilizza l’iperico è che i principi attivi sono fotosensibilizzanti, ed è quindi sconsigliato esporsi troppo al sole durante la cura. Per tutto il resto l’Iperico è privo di effetti collaterali, e viene per questo utilizzato anche in pediatria nei bambini che soffrono di terrori notturni, nell’enuresi e nella balbuzie.
Quando si parla di piante con proprietà sedative è quasi d’obbligo parlare anche del tiglio (Tilia sp.). Si tratta di un grande albero alto fino a 25 m, spontaneo dal piano alle zone montane.
La droga è data dai fiori e dalle brattee fiorali, i quali possiedono discrete proprietà ipnotiche. Nell’antichità gli si attribuivano eccezionali proprietà antispastiche, e molti lo usavano nella cura dell’epilessia. In questo campo, addirittura si credeva che la sola ombra proiettata dall’albero bastasse per guarire da questa malattia.
Nella moderna fitoterapia gli si riconoscono proprietà antispastiche, sedative, leggermente ipnotiche, sudorifere e guarda caso, diuretiche.
Per queste sue proprietà viene utilizzato in casi di spasmi, indigestioni, non come favorente la digestione stessa, ma sempre come spasmolitico, ovviamente nelle insonnie, emicranie, stati febbrili.
È usatissimo soprattutto in pediatria, per i bambini agitati e con difficoltà ad addormentarsi.
Una curiosità sull’uso che è stato fatto del tiglio: nel 1940, quando i nazisti avevano deciso di affamare la Francia, si ebbe l’idea di far preparare una farina verde ricavata dalle foglie di tiglio essiccate, schiacciate e setacciate. Mescolata alla farina d’orzo o di grano saraceno fu utilizzata per l’alimentazione, apportando il 27,87 per mille di azoto e il 2,5 per mille di clorofilla, considerando che da 300 gr di foglie si ricava circa 100 gr di farina.
Altra pianta da noi utilizzata come ornamentale, ma con discrete proprietà sedative, è la lavanda (Lavandula angustifolia). Ovviamente la droga è costituita dai fiori, i quali hanno proprietà leggermente sedative utili nelle cefalee, emicranie, palpitazioni nervose e distonie neurovegetative. L’efficacia della lavanda si può espletare anche attraverso l’olfatto, perché il suo olio essenziale stimola il mesencefalo per mezzo del nervo olfattivo, di conseguenza viene influenzato il sistema limbico ed il sistema reticolare. Questo giustifica l’uso che fa la medicina popolare dei cuscini di lavanda e di piante aromatiche simili, per favorire il sonno.
Spesso viene utilizzata nelle miscele antispastiche come calmante della tosse; anche in questo caso il suo olio essenziale esplica una sua azione antisettica e modificante della secrezione bronchiale.
Ultima tra le piante sedative che voglio nominare è la camomilla (Matricaria recutita e Matricaria chamomilla). In effetti c’è un motivo per il quale la si presenta per ultima nel gruppo delle piante sedative: le sue proprietà sedative sono abbastanza blande, mentre è un ottimo rimedio in casi di infiammazioni e di ulcere gastriche.
Nel corso di ricerche cliniche si è dimostrato, infatti, che la camomilla possiede una buona attività ipnotica, ma solamente con il suo olio essenziale, mentre le altre forme fitoterapiche si sono dimostrate troppo blande in questo campo. A dimostrazione di questo sta il fatto che l’uso dell’infuso di camomilla come blando sedativo è limitato alla tradizione italiana e di pochi altri paesi latini, quali ad esempio la Spagna.
La droga è costituita dai capolini freschi o disseccati di camomilla, come pure dalla loro preparazione a dose attiva.
Come dicevo, la camomilla è un ottimo antiinfiammatorio, un buon spasmolitico, soprattutto negli spasmi della muscolatura liscia, e per uso esterno viene utilizzata nelle infiammazioni cutanee di origine batterica, nelle affezioni del cavo orale e delle gengive, nelle infiammazioni delle vie aeree superiori (inalazioni), e della regione ano-genitale (bagni e lavande).
Ancora molte piante potrebbero essere enumerate tra quelle con proprietà sedative, quali l’arancio amaro, l’avena, l’escolzia, il kawa kawa, ecc.
Stimolanti adattogeni
Alle piante stimolanti o più esattamente le adattogene non appartengono moltissime specie, anche perché per essere un vero adattogeno una pianta deve essere completamente innocua, l’azione dei suoi principi attivi deve essere aspecifica ed infine i suoi effetti devono poter essere definiti normalizzanti. Nel caso dei veri adattogeni si osservano questi effetti: mancanza di reazioni tossiche anche dopo anni di somministrazione quotidiana; aumento della resistenza al lavoro fisico anche in condizioni precarie; aumento delle resistenze organiche all’esposizione a sostanze tossiche (alcool etilico, narcotici, veleni industriali, farmaci antitumorali); facilitazione ad adeguare la vista al buio; maggior resistenza allo stress, maggior resistenza alle infezioni virali.
La più famosa pianta tra gli adattogeni è rappresentata dal ginseng ( Panax ginseng e Panax quinquefolium). Si tratta di una pianta erbacea, originaria dell’Asia orientale (Cina, Corea, Giappone, Nepal), della quale vengono utilizzate come droga le radici di 6-7 anni. La provenienza della droga, la rarità della pianta, l’aspetto stranamente antropomorfo delle radici (segnatura), lo stesso nome, cioè Panax derivante da Panacea, e le modalità di utilizzo della droga nei paesi di origine, hanno favorito l’alone di mistero che l’accompagnavano fino a pochi anni fa.
Alcune tra le molteplici azioni attribuite alla droga sono il miglioramento della fatica fisica, l’aumento della concentrazione mentale e della memoria. Sono state isolate inoltre, sostanze ormonosimili di tipo estrogeno e androgeno che potrebbero almeno in parte giustificare le proprietà afrodisiache ad esso attribuite. Di fatto, l’impiego di questa droga ha risolto favorevolmente alcune turbe neurovegetative originate da disfunzioni ormonali. Molti autori ne consigliano l’uso nel periodo della menopausa.
Secondo altri, l’effetto afrodisiaco è da ricondurre esclusivamente ad un miglioramento delle condizioni psico-fisiche.
L’impiego più corretto è nei casi di esaurimento con sintomi di irritabilità, ipersensibilità, stato di ansia e di apprensione, e senso di debolezza.
Ci sono molte forme fitoterapiche usate, ma la più usata è l’estratto molle del quale si raccomanda l’utilizzo di 1 gr al giorno.
Un altro adattogeno è il guaranà (Paulinia solubilis). Anche questa pianta non è originaria dell’Europa, ma del Sud America.
La droga è costituita dai semi, anche se in commercio la si trova sempre in forma di estratto di vario tipo. I principi attivi sono costituiti da xantine, soprattutto caffeina (fino al 4%), tannini, sali di potassio e fosfati.
Il guaranà risulta essere uno stimolante centrale, dà minore sonnolenza e maggiore capacità di concentrazione, anche se è stato riscontrato che l’effetto maggiore lo si ha su persone non assuefatte all’uso di caffeina. Nei paesi nei quali è originario il guaranà viene usato anche come antidiarroico, grazie all’azione astringente dei tannini e ad una leggera azione antisettica.
Il dosaggio consigliato varia tra 1,5 gr e 2 gr giornalieri, anche se la risposta, può essere molto individuale.
Anche l’eleuterococco (Eleutherococcus senticosus) è compresa nell’elenco degli adattogeni, ed è meglio conosciuto come ginseng siberiano.
La droga è costituita dalle radici e dal rizoma disseccati, e da molte loro forme fitoterapiche.
E’ proprio per l’eleuterococco che è stato coniato il termine di adattogeno, intendendo con ciò la sua capacità di esercitare un’azione aspecifica sui processi fisiologici con il risultato di innalzare la resistenza fisica contro gli stress ambientali, non infettivi. Gli atleti russi lo utilizzavano come anabolizzante non dopante.
È risultato utile come tonico nelle sensazioni di stanchezza e debolezza, nella ridotta capacità di rendimento e di concentrazione e negli stati di convalescenza.
Una curiosità: l’eleuterococco è risultato più efficace nelle donne, in quanto meno eccitante del ginseng coreano, e per questo spesso viene detto il ginsen delle donne.